
Ieri su
La Repubblica, la mia intervista a
Kengiro Azuma
Novant'anni di passione. Per Milano. E per l'arte.
«Ho chiamato mio figlio
Ambrogio in omaggio a questa città, e mia figlia Mami unendo le due
prime sillabe del nome di Marino Marini (il mio maestro di scultura a
Brera) e di Milano stessa. Per “Mami” mi presero tutti in giro»
racconta e ride. «Dicevano
che sembrava la targa di una automobile. Per me era un gesto d'amore
verso Milano e verso l'artista che mi aveva cresciuto come un padre».
Sono passati sessant'anni da quanto Kengiro Azuma arrivò qui, da
Tokyo, con una borsa di studio in tasca. E novanta anni da quando è
nato, a Yamagata, il 12 marzo del 1926. Doppio anniversario che il
grande scultore giapponese festeggia con una mostra “Mu
Yu. Il vuoto e il pieno”, curata da Susanne Capolongo e Stefano
Cortina per lo spazio di Cortina Arte in via Mac Mahon.
Da vedere, opere storiche, degli anni Sessanta, e un ciclo di
disegni inediti degli anni Ottanta, costruiti sulla sintesi perfetta
fra volumi occidentali e un senso del vuoto tutto orientale. Molto
zen.
Perché scelse proprio
l'Italia?
Erano gli anni Cinquanta,
tutti i miei amici e colleghi volevano andare a Parigi, ma io sentivo
che l'Italia era più moderna. C'era, allo stesso tempo, più storia
e più progresso.
E perché proprio
Milano?
Avevo visto in quei
giorni, su un depliant che girava alla facoltà d’arte di Tokyo,
una scultura di Marino Marini e ne rimasi affascinato. Volevo
conoscerlo, volevo imparare da lui. E lui stava qui, a Milano. Tutti
mi dissero che ero pazzo, che sbagliavo. Che avrei dovuto scegliere
Firenze o Roma, le città d'arte più famose. Ma io ero testardo. E
ho indovinato bene.
Ha sempre voluto fare
l'artista?
Da
ragazzo ero confuso. A 17 anni lasciai il liceo per entrare
nell’Accademia aeronautica della Marina. Ho combattuto dal '43
prima come pilota. Poi decisi di diventare kamikaze, volevo immolarmi
per la patria. Ma la guerra finì una settimana prima della mia
missione suicida.
Come ne uscì?
Svuotato.
Ripresi in mano la mia vita recuperando l'arte della mia famiglia,
artigiani fonditori del bronzo; ricominciai a studiare e
arrivai a laurearmi. Fu allora che partecipai al bando per una borsa
all'estero. Pur di rimanere a Milano, rifeci tutta l'accademia da
zero, altri quattro anni. Non mi sono mai pentito.
Milano com'era?
Una città viva, allegra,
entusiasta. C'erano grandi maestri della scultura, Manzù, Messina,
Minguzzi. Per non parlare di Lucio Fontana, un uomo geniale e
simpaticissimo. A Tokyo ero cresciuto seguendo la lezione dei
francesi. Rifacevo Rodin. Poi ho scoperto gli italiani ed è stata
un'illuminazione.
Qual è il cuore della
sua arte? Batte ancora?
Ho inseguito il senso
della vita per riempire le voragini che la giovinezza mi ha lasciato.
Ancora oggi mi interrogo sul mistero dell'esistenza. Vivo nel buio,
sono pieno di dubbi. Le superfici delle mie sculture alternano spazi
vuoti e pieni. Indago l'armonia degli opposti, l'equilibrio fra bene
e male, freddo e caldo, pesante e leggero. È come il principio del
tao.
Vale anche per la
nuova scultura davanti al Monumentale?
È una piramide che
svetta verso l'alto, una stele che collega cielo e terra, fatta di
materia soda e di buchi profondi, improvvisi. Trenta mecenati
milanesi hanno acquistato 30 gocce di bronzo che ho scolpito come
simbolo di questo dono, per finanziare la fusione uscita dalla
Fonderia Battaglia, che ha promosso l'iniziativa. Una specie di
sottoscrizione pubblica, come accadde per il Quarto Stato di Pellizza
da Volpedo.
Milano, allora, è ancora viva?
In questo sì, anche se nel mondo
dell'arte si è tutto un po' uniformato. Non ci sono più grandi
maestri e allievi pazienti. Vogliono arrivare tutti subito.
Soprattutto i giovani. Fanno le scale tre per volta. Io consiglio di
lavorare sodo e fare un passo dopo l'altro. La fretta non aiuta mai.
Quali luoghi di Milano ama di più?
La Bovisa dove abito. E il Museo del
Novecento, dove torno a vedere i miei padri nobili. Fontana illumina
il sagrato del Duomo con il suo neon. Una sala ospita la raccolta
splendida di sculture di Marino Marini che torno a trovare per
pensare a lui. Quando morì mi lasciò il suo studio in via Cernaia.
Ancora ci lavoro. Quasi tutti i giorni.