Riaperta, a Bergamo, l'Accademia Carrara.
I capolavori del conte per un piccolo Louvre in terra lombarda.
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Giovanni Bellini, Ritratto di giovane uomo. |
Un nastro d'oro sulla
bella facciata neoclassica come su un pacco da scartare. Dopo sette
anni di chiusura, di lavori e di restauri, l'Accademia Carrara di
Bergamo riapre le porte al pubblico e svela i suoi tesori in un
assetto da grande museo. Come, di fatto, è. Un piccolo Louvre in
terra lombarda che, da 250 anni, custodisce capolavori di cinque
secoli di storia dell'arte italiana. Il lungo periodo di inattività,
dovuto agli interventi che hanno ribaltato impianti, finiture e
servizi, sembra – a questo punto – fin troppo breve rispetto alla
mole del risultato. Un po' di numeri aiutano a farsi un'idea: 2mila
metri quadrati di spazio, 610 pezzi esposti su 2mila opere in
collezione, 28 sale, 11milioni di euro di investimento e 1milione e
mezzo solo per gli allestimenti, per luci e pareti, tre nuovi libri,
la guida breve, la guida per bambini e i Cento capolavori in
cofanetto, editi dalla milanese Officina Libraria. «La
quantità è tale che la vastità non basta»
si legge all'inizio del percorso. È una frase uscita da una cronaca
del Settecento che celebrava, già allora, la sfida del conte
collezionista Giacomo Carrara innamorato di un sogno: quello di
regalare alla sua città una pinacoteca costruita attorno al suo
patrimonio di quadri e sculture e di coronarla con una accademia per
giovani artisti, pronti a formarsi sull'esempio illustre dei maestri
del passato. Sbirciando sulle pareti che decorano la hall, si vedono
i graffiti degli allievi dell'epoca che lasciarono le loro firme fra
i marmi dell'antica aula di disegno, ora destinata all'accoglienza.
Mettono i brividi. E fanno riflettere sulla continuità di una storia
ancora viva nei laboratori della scuola d'arte e nelle sale del
museo. Qui i gioielli di Giacomo Carrara, arricchiti da quelli degli
altri 240 donatori succeduti nel tempo (tutti nominati all'ingresso,
come fanno i musei americani per gratificare i benefattori) godono
adesso di un ambiente vellutato, nei toni del grigio, perfetto per
non stancare gli occhi in un tour serrato di opere da manuale. La
partenza è col botto: la grande pittura fra gotico e rinascimento
allinea subito i Tre crocefissi di Foppa, la Madonna con
bambino di Mantegna, il Ritratto di giovane uomo di
Bellini, un tondo di Donatello, una Madonna di Antonello da
Messina, tutti inginocchiati davanti all'esile ma preziosissimo
Ritratto di Leonello d'Este di Pisanello, il colto marchese di
Ferrara che, nel famoso regesto inglese 1001 quadri da vedere
nella vita, edito da Universe, è schedato fra i masterpieces del
mondo. Passando dalla Toscana di Botticelli e Raffaello, con un San
Sebastiano eletto a icona del museo, e dalla Lombardia di
Bergognone e Luini, prima e dopo Leonardo, si approda alle sale
monumentali, all'infilata di pale d'altare del Cinquecento maturo, ai
volti ipnotici di Lorenzo Lotto, alle Madonne burrose di Tiziano,
avanti fino ai cavalieri oscuri di Giovanni Battista Moroni, la
risposta bergamasca agli enigmi della Gioconda. Barocco e Rococò
trionfano sotto le arcate settecentesche del piano nobile, dove Fra'
Galgario, il frate-pittore dei potenti, che li dipinse impomatati per
sferzare la loro pochezza, precede il boom della natura morta
seicentesca, con gli strumenti musicali di Baschenis, signore della
polvere e del tempo che scorre. Dribblando le sculture uscite dalla
raccolta del grande storico dell'arte Federico Zeri, gessi fastosi e
bizzarri, s'incontra un nucleo di ritratti dagli occhi profondi di
Cesare Tallone e Giovanni Carnovali, l'ultimo romantico, padre degli
Scapigliati, impressionista prima degli impressionisti francesi.
Struggente il finale – forse un po' affollato – in cui giace
l'amore spezzato di Paolo e Francesca, capolavoro di Previati (gli
inglesi dovrebbero aggiungerlo alla guida!) e il Ricordo di un
dolore di Pellizza da Volpedo, commuovente fino al midollo. Anche
se si esce col cuore in mano, la festa per il museo ritrovato
contagia d'allegria.
da La Repubblica, giovedì 23 aprile 2015