1984, trent'anni dopo.
Le grandi società dettano legge sulla
cultura. E guai a chi alza la testa.
Lo scriveva Orwell nel
suo visionario (ma neanche tanto...) «1984»,
capolavoro di ossessione e di denuncia di un controllo superiore che
appiattisce le menti. Può sembrare un po' eccessivo paragonare la
situazione culturale del nostro paese a questo gioiello pungente
della letteratura ma, davanti a episodi recenti di censura del libero
giudizio, mi sento un po' come il signor Winston (il protagonista del
libro) impegnato a esprimere il suo malcontento in un diario zeppo di
appunti violenti contro l'ideologia dominante.
Commetterò forse uno
“psicoreato” opponendomi alla “neolingua” imposta dalla
dottrina del “Ingsoc” e al suo motto L'ignoranza è forza, la
guerra è pace, la libertà è schiavitù? Pazienza. Fatto sta
che, in un paese ricco di tesori come il nostro, coi depositi dei
musei che brulicano di opere nascoste e con una storia personale
piena di autori da celebrare, scoprire, esporre, tirare fuori dai
cassetti ed essere orgogliosi di averlo fatto, è deprimente fare la
figura degli spiantati, bisognosi di importare prodotti altrui, di
raccontare la storia degli altri in assenza di una propria.
Stabilito che l'Italian
Pride non è mai stato il nostro forte, nel mondo dell'arte come in
molti altri settori, il biasimo va diritto a quelle amministrazioni
che, per non caricarsi di problemi organizzativi e di gestione, oltre
che di un minimo di creatività e auto-promozione, preferiscono
appaltare la cultura a chi lo fa di mestiere. E che non si preoccupa
certo di produrre contenuti qualitativi, ma solo reddito per le
proprie casse. Parliamo, nel caso dei musei, delle società che
vendono mostre (si definiscono “mostrifici”, quasi a farne un vezzo) e che millantano doti
illuminate da mecenati sventolando il rischio d'impresa, ben
consapevoli dei numeri garantiti a fronte di grandi nomi in
cartellone. È come se la Columbia Pictures si preoccupasse di non
raggiungere il break even lanciando nelle sale il supereroe di turno
o l'ultimo OO7.
I supereroi dell'arte,
come Van Gogh, Chagall, Picasso, Monet, sono successi assicurati. E,
per il pubblico, è bello tornare a vederli anche cento volte; The
Amazing Spider-man io l'ho rivisto per mesi, ma nessuno ha mai
cercato di convincermi che fosse Kubrick! È giusto insomma che il
pubblico scelga con cognizione di causa, che conosca il valore di ciò
che vede e i meccanismi che si agitano alle spalle. Nulla di grave.
Solo trasparenza. Che tuttavia non c'è quando un Comune si dichiara
“produttore” di mostre e poi si scopre che, dall'ideazione
all'allestimento, è stato tutto subappaltato a società
specializzate. Che non c'è neppure quando i giornali ospitano
articoli a piene pagine o i telegiornali dedicano servizi interi a
questi eventi senza fare luccicare in un angolo la scritta onesta
“pubblicità”. E che non c'è, soprattutto, quando le società
storcono il naso leggendo le critiche non prezzolate sui quotidiani e
magari si permettono di minacciare i giornalisti e i critici che le
hanno vergate perché non allineati all'opinione comune (la loro).
Quando nel secondo
dopoguerra, la critica sui giornali la facevano personaggi come
Testori o Leonardo Borgese, bacchettando le mostre che all'epoca
erano davvero frutto di progetti ragionati, costosi e rischiosi, non
mi sembra che nessuno abbia rimbrottato le loro riflessioni negative
giudicandoli «duri
d'orecchi»
o «provinciali».
Era cultura e basta. Le mostre erano fatte per aggiungere tasselli
nuovi alla storia dell'arte. Gli articoli erano scritti per
commentare la qualità dei quei tasselli. E il dibattito era aperto.
E tutti potevano partecipare con un verso.
Oggi
il Grande Fratello delle mostre ci impone pacchetti precotti, ci dice
quali autori vedere e cosa pensare di loro. In questo monopolio
culturale che stranamente riguarda quasi solo il mondo delle mostre
(perché non mi risulta che la Scala sia mai stata affittata alla
Sony perché ci faccia concerti in linea con le sue etichette), si
salvano alcuni baluardi italiani che, nonostante i tagli alla
cultura, preferiscono scommettere su una mostra all'anno (e non
quattro in un mese) investendo nei propri brand. Basti pensare alle
mostre di Palazzo Madama, ai Musei Civici di Venezia o alla grande
antologica del Veronese allestita a Verona promossa e
organizzata dal Comune di Verona, dalla Direzione Musei e Monumenti,
insieme con l’Università degli Studi di Verona e la
Soprintendenza di Verona, Rovigo e Vicenza, in associazione (guarda
un po'...) con la National Gallery di Londra, che da sempre insegna
al mondo come scommettere con intelligenza e reale rischio d'impresa
su prodotti culturali che abbiano un senso, un fine intellettuale e
non solo speculativo. Niente subappalti né monopoli per
un'istituzione che ha rispetto dei suoi visitatori e delle loro menti
libere.