Art-bonus.
Costi e benefici della nuova riforma Franceschini.
Ne hanno parlato ieri, al Chiostro di Voltorre, esperti giuristi, economisti e storici dell'arte.
Oltre a imprese pronte a sponsorizzare la cultura, a fronte di agevolazioni fiscali.
Appuntamento (su queste pagine) per un resoconto della giornata.
La speranza è l'ultima a morire... anche a Pompei!
Che attende fiduciosa i frutti del decreto.
venerdì 12 dicembre 2014
domenica 7 dicembre 2014
A proposito di parrucchieri
Evviva la donna bionica con la chioma spettinata.

Premetto che, di norma, non amo gli
articoli che incensano le donne lavoratrici, le mamme wonder woman,
il multitasking femminile inteso come condizione eccezionale ed
encomiabile. Non li amo perché penso sempre che, incensare una cosa,
contribuisca a metterne in evidenza la rarità. Mentre la figura
della “donna in carriera” (o semplicemente della donna che si fa
un paiolo così per mantenere se stessa e gli altri) è una costante,
un dato acquisito e, come tale, dovrebbe essere considerato e
rispettato. Senza retorica.

Detto ciò, sfogliando l'ultimo numero
di D di Repubblica, mi sono imbattuta ieri in un servizio sulla top
model brasiliana di origine tedesca, Gisele Bündchen che, a 34 anni,
pare sia la modella più pagata del mondo. Ovviamente bellissima,
mamma di due figli e ragazza copertina di Chanel N.5.
In un occhiello l'articolo recita: «Su
internet ha postato una foto da mamma bionica, in cui allatta la
piccola Vivian, circondata da una folla di manicure, truccatori e
parrucchieri».
Felice per Gisele, ma mi sembra che il
titolista abbia uno strano concetto di donna bionica. In base alla
mia esperienza, la cyber-mamma è quella che, mentre allatta, studia,
fa concorsi, colloqui, risponde alle mail, al telefono, al fax,
consola la collega depressa, coccola il marito disoccupato, completa progetti
in notturna da consegnare in ufficio il giorno seguente, e intanto
carica la lavatrice, surgela gli avanzi e porta a spasso il cane
moderando una conference call. E, la vera mamma bionica – cara
Gisele (e caro titolista snobbone) – generalmente non guadagna 47
milioni di dollari in un anno; va dal parrucchiere quando la
ricrescita è larga come la faglia di Sant'Andrea e, durante le
riunioni, nasconde le mani sotto i block notes, perché ha passato la
notte a mangiarsi le unghie dallo stress.
Giuro che, da domani, torno a parlare
di arte!
mercoledì 3 dicembre 2014
Forte e Chiara
Lezioni di sostenibilità dal
parrucchiere.
Che ha più stile di Expo.
E più rispetto delle nostre risorse.

Strano ma vero, fra uno
shampoo e una phonata, mi racconta con orgoglio la storia di
un'azienda specialista in prodotti per i capelli che, a Parma, da
trent'anni pensa alla bellezza nel rispetto dell'ambiente. Ciò vuol
dire che, in flaconi di plastica riciclata e riciclabile (dopo aver
finito il balsamo potete usarli per metterci anche il latte o la
salsa!), vengono conservati trattamenti per la chioma a impatto zero
per il pianeta.
Realizzati servendosi
solo di risorse energetiche rinnovabili e attingendo ai principi
attivi di frutta e verdura fornita da produttori altrettanto bio,
ecco allora colori, spume, creme e conditioner fatti coi pomodori e i
cetrioli, con le piante medicinali e aromatiche, con amidi naturali,
estratti di malto, nocciole, mirto, rucola o sambuco, oli di oliva e
latte di mandorla. Ricette per uno styling ecologico che ha aderito,
da qualche anno, al progetto LifeGate's contro le emissioni di Co2
generate dalla produzione dei packaging, secondo quanto
stabilito dal Protocollo di Kyoto.
Ma è possibile che
questa lezione di sostenibilità venga da un salone di bellezza,
mentre da Expo arrivano solo messaggi stile masterchef? Io,
invece dei segreti culinari per scoprire come cuocere i bucatini, mi
aspetterei di trovare l'anno prossimo, in tavola, argomenti come
questi: che parlino di prodotti naturali, riduzione degli impatti
ambientali, distribuzione a km zero, cooperazione fra aziende...
perché i banchetti coi piatti tipici si possono trovare nella food-court di qualsiasi mall di provincia.
Per concludere, nel caso
vi interessi la lavata di capo "equa e solidale", l'azienda di Parma si
chiama Davines, ha un sito ricco di spiegazioni e, per la cronaca, io
ho testato i prodotti con ottimi risultati, compreso lo shampoo al
pomodoro, che non mi ha trasformata in un vegetale ma mi ha regalato
una una pettinatura liscia come l'olio. Extravergine, of course...
venerdì 21 novembre 2014
Belle scoperte
Il fante con lo stivale ricamato.
Alla Rocca di Angera, lavori in corso nella Sala della Giustizia.
Un ciclo di affreschi racconta la guerra lampo dei Visconti.
E spunta, sotto la calce, lo stivaletto di un soldato stremato dai combattimenti.
I cavalieri, le armi e
gli amori. Pochi amori, per la verità, e molte armi, scudi, spade,
vessilli e lance in resta, nel ciclo di affreschi medievali più
bellicosi della Lombardia. È quello che, alla Rocca di Angera, nella
sala della Giustizia (il nome lo deve all'effige della Giustizia in
trono, capolavoro di eleganza cortese, raffigurata sul muro a nord),
narra gli episodi della Battaglia di Desio, combattuta nel gennaio
polare del 1277 dai Visconti contro i Torriani per il dominio del
territorio di Milano. Il fatto sanguinoso vide la famiglia Della
Torre annientata dalla strategia militare dei futuri Duchi, in un
testa a testa durato l'arco di una notte. Una guerra lampo che il
pittore ingaggiato dai Visconti per celebrare, nella loro antica
Rocca sul Lago Maggiore, l'impresa e la vittoria, dipinse a poche ore
dalla fine delle ostilità, col piglio del cronista, così informato
sui fatti da raccontarli di getto. E con dovizia di particolari, a
giudicare dal resoconto accurato, dipanato in sette capitoli densi di
notizie in diretta dal fronte, raccolte da un maestro sul quale,
oggi, si sono accesi i riflettori. Mentre gli storici dell'arte
discutono l'enigma della sua identità (niente nome ma, visti i
committenti illustri, pare fosse piuttosto quotato), la famiglia
Borromeo, proprietaria della Rocca sin dalla metà del Quattrocento,
dopo la caduta dei Visconti, ha affidato al laboratorio milanese di
Carlotta Beccaria – che da anni segue le proprietà dei principi,
compresa la quadreria dell'Isola Bella – il restauro degli
affreschi. Avviato a settembre e pronto a chiudersi per Natale, il
cantiere è stato presentato ieri in anteprima alla stampa con una
visita a cuore aperto delle immagini affrescate, molte delle quali
emerse sotto strati di calce che ha nascosto per secoli alcuni brani
dell'episodio. Come l'armigero spossato dal combattimento, seduto in
un angolo e affiorato giusto ieri, con il suo stivaletto di pelle
ricamato, sotto la spugna bagnata di una restauratrice del team.
«Ogni giorno è una
scoperta» racconta
Carlotta Beccaria, «le
scene principali erano già visibili, ma ci sono figure ancora da
salvare». Soldati
d'inverno, con le loro corazze pesanti e preziose, schierati davanti
al loro Signore, Ottone Visconti ritratto nell'atto di benedire il
nemico vinto, Napo Della Torre, prima di sprangarlo nella torre di
Baradello, vicino a Como, e lasciarlo morire di fame, come il Conte
Ugolino di Dante. Poveretto. Per fortuna che Ottone, oltre a essere
condottiero, fu pure l'arcivescovo di Milano. Ma la clemenza non era
una dote di famiglia, basti pensare al pro-nipote Bernabò, spietato
e crudele, raffigurato nella splendida arca di Bonino da Campione al
Museo d'arte antica del Castello Sforzesco, a sua volta avvelenato
dal nipote Gian Galeazzo. Parenti serpenti, eredi di una saga
familiare di cui il misterioso Maestro di Angera scrisse, nella
Rocca, la prima pagina. Chiusi i restauri, il pubblico potrà
visitare il complesso da febbraio, fra lotte e parate di questo
mestiere delle armi... e della pittura.
Alla Rocca di Angera, lavori in corso nella Sala della Giustizia.
Un ciclo di affreschi racconta la guerra lampo dei Visconti.
E spunta, sotto la calce, lo stivaletto di un soldato stremato dai combattimenti.

(da La Repubblica, 20 novembre 2014)
lunedì 17 novembre 2014
Non serve essere economisti per capire che...
La cultura a costo zero
non produce cultura.
Ma volontari volenterosi e
specialisti disoccupati.

Mentre, a Milano, si
cercano ancora volontari per un Expo che ha bruciato i suoi fondi in
maxi-compensi ingiustificati, a Roma la Soprintendenza sta inseguendo
volontari per i musei pubblici e anche associazioni disponibili a
occuparsi di aree archeologiche comunali. Mentre i
volontari del FAI e del Touring tengono aperte le dimore storiche, le
amministrazioni comunali continuano ad affidare le pratiche dei
settori-cultura a stagisti e obiettori.
Premesso che il volontariato è
importante, crediamo che debba tuttavia affiancare e non sostituire cariche specifiche.
Tanto più che, con la scusa dei volontari, le cariche ricoperte da
free lance o da personale qualificate assunte a contratto, vengono
oggi tagliate per ridurre drasticamente i costi. E così ci ritroviamo con servizi
di accoglienza, vigilanza, catalogazione e persino di ricerca
inadeguati e improvvisati, a causa della presenza di figure
volenterose, ma non necessariamente preparate e organizzate.
Questo fa tornare a
riflettere sul nervo scoperto di tutta la questione culturale,
eternamente irrisolta in Italia: come guadagnare dalla cultura, per non ricorrere a soluzioni a costo zero. Mortificanti.
Va
benissimo parlare di conservazione e valorizzazione, ma sarebbe utile
imparare a ragionare in termini di introiti, di ricavo, di profitto.
E persino di speculazione, se questo significa sfruttare al meglio le
nostre risorse, per aiutarle a rendere e per reinvestire il gettito
proprio negli stessi processi di conservazione e valorizzazione.
Ancora una volta, tocca
citare l'esempio anglosassone, dove il volontariato (nei musei sono
attivi servizi di formazione accuratissimi per volontari efficienti,
che sfoggiano divise lucidate e non si appisolano sulle poltrone in
tenuta da camera), spalleggia le attività ordinarie di gestione,
curate dagli specialisti di ogni settore. E questo accade, non perché
inglesi e americani sia più ricchi, ma perché ci credono e basta!
Credono che il museo sia un luogo sociale, sia un patrimonio della
collettività. Amano la “cosa pubblica” e investono nelle risorse culturali. Anche quando sono poche, come nel caso dei musei a nord
della west-coast, costruiti con niente sul niente, eppure dotati di
sevizi e staff da favola.
Come fanno? Semplice,
guadagnano.
Dai biglietti, che non
costano 5 euro come al Castello Sforzesco di Milano, ma 15
dollari, come nelle grandi mostre a Palazzo Reale che –
guarda caso – non finiscono nelle casse di Palazzo Reale, ma nelle
tasche delle società produttrici, incistate come organismi alieni. In
sintesi: Palazzo Reale non ci ha messo un ghello, non ci guadagna un
ghello.
E guadagnano anche dai servizi:
caffetterie attraenti e bookshop zeppi di gadget che, in Italia, il
Mibact controlla e censura se ritenuti troppo ludici o ameni da
squalificare il profilo della nostra cultura superiore. Snobismo decisamente fuori luogo.
Guadagnano, soprattutto, dalle donazioni che i visitatori (innamorati e
rispettosi, appunto, della “cosa pubblica”) firmano a sostegno di
un luogo che li rappresenta. All'ingresso di molti istituti
stranieri, anche in Francia e Germania, brillano le targhe d'ottone
con l'elenco dei benefattori e la cifra esatta che è stata versata a
sostegno del museo.
Volete sapere il
paradosso? Nel nostro paese questo non sarebbe possibile, perché le
donazioni non sono, per legge, veicolate verso il destinatario della
donazione stessa. Ovvero, un museo non ha il diritto di introitare i
fondi che gli vengono generosamente destinati. E neppure quelli che
ha guadagnato da solo, con l'olio di gomito di specialisti e pure di volontari. Al museo del Novecento di Milano, gli incassi delle
splendide Card dedicate alle attività culturali, finiscono nelle
casse del Comune, che può decidere come spenderli a suo piacimento.
A Brera, per la grande mostra in arrivo a dicembre su Bramante, la
soprintendente Sandrina Bandera ha dovuto ricorrere all'avvocatura di
Stato, inventandosi una formula giuridica di collaborazione speciale,
per incamerare i 300mila euro che Giorgio Armani ha scucito come
sponsor unico della mostra. Altrimenti, anche quelli, sarebbero
finiti nelle casse generali. E buonanotte sognatori.
Vizi di un sistema che
continua a raggirare l'ostacolo. Che parla di riforme e non affronta
questo punto fragile. Per cecità o per furbizia. Con il risultato
che i musei avvizziscono, i volontari dormono, i professionisti
preferiscono investire il tempo in incarichi paralleli e privati
(meglio retribuiti), sottraendolo alla cura di un luogo che non
restituisce nulla all'impegno.
Io non so gli altri, ma se a me
chiedessero di farmi in quattro per guadagnare soldi destinati a
finire altrove, probabilmente limiterei la fatica e delegherei il
resto al volontario di turno, consapevole, sin dall'inizio, di non guadagnarci nulla.
martedì 11 novembre 2014
Viaggio in Lombardia
L'umanità di San Salvatore.
Il medioevo in un affresco.

Ancora poco studiato, ma
al centro di un progetto di recupero e di valorizzazione, questo
oratorio campestre custodisce immagini commoventi. Che ricordano
quelle di Galliano, a San Vincenzo, o di Civate, in San Pietro al
Monte. Meno note, ma forse più toccanti. Per l'umanità che
distingue i personaggi delle scene sopravvissute ai secoli: le Storie
di Maria, dell'infanzia di Cristo e della Passione.
Come la Visitazione
della Vergine a Elisabetta, che strappa un applauso per il gesto
della cugina: la sua mano poggia delicatamente sul ventre che
custodisce il bambino. Un inno al naturalismo lombardo, al senso per
la vita, per il corpo e per la terra di una pittura ispirata alla
realtà delle cose e dei sentimenti.
Il ciclo degli affreschi
di San Salvatore a Casorezzo e in corsa per ottenere il patrocinio
del FAI nei suoi “luoghi del cuore”. Occorrono voti per salvare
una perla.
Ecco il link per
partecipare. Votate subito!
venerdì 31 ottobre 2014
Pillole da Nuoro / 3
Fragili e insieme statuarie.
Le figure sedute di Giacometti rievocano gesti e sguardi lontani.
E una solennità, che mette tutti in ginocchio!

Niente atti plateali, solo grande austerità e compostezza.
Doti condivise dalla statuaria tipica di altri popoli, fra cui i Baulé della Costa d'Avorio che vedevano nei simulacri del genere blolo bla “gli sposi” e “le spose dell’aldilà”, il culto di un'anima prenatale, lasciata nel regno dei morti al momento della nascita sulla terra e raffigurata come un'entità in trono, una dea dall'espressione malinconica ma solenne.
martedì 28 ottobre 2014
Pillole da Nuoro/2
A un passo dal tempo.
Giacometti e gli egizi. Mai così vicini.
![]() |
Bronzetto di Neferhotep gradiente
XXVI - XXX dinastia,
Museo Archeologico di Bologna
|
Sono
molti i disegni di Giacometti ispirati alle sculture egiziane
tracciati su carte sparse o a margine dei libri.
Già nel 1917, all'epoca dei suoi studi alla scuola evangelica di Schiers, l'artista manifestò la passione per questa antica civiltà elaborando una tesina sul valore dell'arte dell'antico Egitto, a suo giudizio superiore rispetto a quella della Grecia classica o del mondo romano.
Giudizio confermato con forza dopo le visite al Museo Archeologico di Firenze e ai Musei Vaticani, che lo lasciarono stupefatto.
Preso dall'eccitazione della scoperta, scrisse ai genitori: «Le sculture egiziane hanno una grandezza, un ritmo della linea e della forma, una perfetta tecnica come dopo più nessuno trovò. Tutto è lavorato e ponderato sino all'ultima conseguenza e non c'è un'ombra un po' troppo forte o debole, non una linea o forma che stona, non un buco dove metterci un dito»..
Solenni e imperturbabili davanti a lui si stagliavano le effigi della Regina Nefertiti, di Re Chefren o delle dame di corte della III dinastia di cui, al Louvre, nelle sue passeggiate domenicali, ammirò le fogge maestose e assolute.
Già nel 1917, all'epoca dei suoi studi alla scuola evangelica di Schiers, l'artista manifestò la passione per questa antica civiltà elaborando una tesina sul valore dell'arte dell'antico Egitto, a suo giudizio superiore rispetto a quella della Grecia classica o del mondo romano.
Giudizio confermato con forza dopo le visite al Museo Archeologico di Firenze e ai Musei Vaticani, che lo lasciarono stupefatto.
Preso dall'eccitazione della scoperta, scrisse ai genitori: «Le sculture egiziane hanno una grandezza, un ritmo della linea e della forma, una perfetta tecnica come dopo più nessuno trovò. Tutto è lavorato e ponderato sino all'ultima conseguenza e non c'è un'ombra un po' troppo forte o debole, non una linea o forma che stona, non un buco dove metterci un dito»..
Solenni e imperturbabili davanti a lui si stagliavano le effigi della Regina Nefertiti, di Re Chefren o delle dame di corte della III dinastia di cui, al Louvre, nelle sue passeggiate domenicali, ammirò le fogge maestose e assolute.
lunedì 27 ottobre 2014
Pillole da Nuoro
Alberto Giacometti e l'arcaico al Museo MAN.
Trenta capolavori del maestro svizzero dialogano con reperti egizi, etruschi, nuragici, africani.
Quando passato e presente si toccano.
Per voi, la storia (a puntate) di una mostra che merita il viaggio.
Trenta capolavori del maestro svizzero dialogano con reperti egizi, etruschi, nuragici, africani.
Quando passato e presente si toccano.
Per voi, la storia (a puntate) di una mostra che merita il viaggio.
Nel
maggio del 1920, durante il suo soggiorno di studio a Padova e a
Venezia, in visita alle opere di Giotto e Tintoretto, Giacometti
rimase folgorato da una visione che, anni dopo, si tradusse nella
serie delle Femmes
de Venise.
«La
sera tutte queste sensazioni contraddittorie vennero vanificate dalla
vista di due o tre fanciulle che camminavano davanti a me. Mi parvero
immense, al di là di ogni nozione di misura e tutto il loro essere e
i loro movimenti erano carichi di una violenza spaventosa. Le
guardavo come in preda a un'allucinazione, invaso da una sensazione
di terrore. Era come uno squarcio nella realtà. Il senso e i
rapporti fra le cose erano cambiati. Nello stesso tempo i Tintoretto
e i Giotto si facevano piccoli, deboli, muti e inconsistenti, simili
a un ingenuo balbettio, timido e goffo. Eppure ciò a cui tanto
tenevo nel Tintoretto era un pallido riflesso di quella apparizione e
compresi allora perché, a ogni costo, non lo volevo perder. Quello
stesso bagliore lo ritrovai, ma molto più intenso, lo stesso
autunno, dapprima a Firenze, in un busto egizio, la prima testa che
mi parve davvero somigliante e, in seguito, nei Cimabue di Assisi che
mi colmarono di una gioia immensa».
lunedì 20 ottobre 2014
La mostra (che non ci possiamo permettere)
Bramantino.
L'ermetico lombardo. A Lugano.

(da La Repubblica, 18 ottobre 2014)
Museo Cantonale, Lugano, via Canova 10,
fino al 11 gennaio, mar 14-18 mer-dom 10-18
info 0041.91.8157971.
sabato 18 ottobre 2014
Il dubbio
... del sabato mattina
Perché, con tutti i
grandi e bravi scultori di cui è ricco il nostro paese (ma anche
l'Europa, se volessimo essere comunitari) la Veneranda Biblioteca
Ambrosiana ha affidato a un architetto, il polacco Daniel Libeskind,
la realizzazione della scultura ispirata agli studi matematici di
Leonardo contenuti nel Codice Atlantico. Essere una archistar
gettonata non vuol dire sapersi confrontare con un “mestiere” che
non è il proprio. E il risultato si vede. La “Leonard Icon” -
già il titolo è un capolavoro di anonimato – non dialoga con lo
spazio circostante, con l'ambiente che la ospita, è rigida, fredda e
insignificante. È un progetto tridimensionale frutto di un (brutto)
studio compositivo creato col Cad. Senz'anima, senza pensiero, senza
conoscenza dei segreti dello scultore: il sesto senso per la
composizione perfetta e insieme espressiva, la sintonia coi
materiali forgiati con sapienza e non assemblati in ferramenta.
Perché, nel nostro paese,
tutti vogliono fare un lavoro che non gli appartiene?

venerdì 17 ottobre 2014
La mostra (da non perdere)
Nel blu dipinto da Klein.
E camminando nella luce di Fontana.
Al Museo del Novecento di Milano, la storia di un'amicizia creativa... che ha fatto storia.
Uno sognava di firmare il
cielo col proprio nome per farne un'opera dai confini infiniti.
L'altro tagliava le tele con il gesto netto di un rasoio per lasciar
passare l'aria nei quadri, come finestre aperte sullo spazio. Yves
Klein (1928-1962) e Lucio Fontana (1899-1968) avevano tante cose in
comune. In primo luogo, una sintonia di pensiero a cui il Museo del
Novecento, dedicata una mostra capace di
rievocare tutte le affinità di questa coppia d'oro dei favolosi anni
Sessanta, compresa una amicizia sincera. Quella sbocciata nel gennaio
del 1957 quando l'artista di Nizza espose i suoi monocromi blu alla
Galleria Apollinaire di Milano, con una presentazione di Restany, e
Fontana vi comprò subito un quadro affascinato dalla sua idea di
affidare a un solo colore il respiro assoluto del mondo. Fra i due
nacque l'intesa. Fontana gli presentò gli amici galleristi italiani,
oltre a Bruno Munari che, a sua volta, acquistò un lavoro. E, il
francese, ricambiò la cortesia, introducendolo nel mondo dell'arte
di Parigi, contribuendo al boom della sua fama in Europa. Entrambi
ansiosi di rinnovare il concetto di arte, immaginavano opere senza
limiti, andando a caccia del vuoto che frulla intorno alle cose, di
una quarta dimensione dove lo spettatore potesse entrare e diventare
protagonista. Klein con le sue performance, in cui le modelle nude
intinte nel colore (il famoso IKB, International Klein Blue, passato
dall'ufficio brevetti!) si spalmavano sulle tele per dimostrare la
creazione spontanea della forma. Fontana costruendo ambienti
spaziali, stanze da attraversare, illuminate da arabeschi di tubi al
neon, come quello storico della IX Triennale del 1951, che oggi si
affaccia, dal Novecento, sul sagrato del Duomo. Proprio sotto la sua
luce lattiginosa, è ricreata una vasca di pigmento blu oltremare,
revival della installazione di Pigment pur, presentata nel
1957 alla Galerie Allendy di Parigi. Una mostra da dieci e lode per
un museo che costruisce progetti, valorizza le sue collezioni e i
curatori milanesi, visto l'impegno messo da Silvia Bignami e Giorgio
Zanchetti, coordinati a meraviglia con gli Archives Klein di Parigi.
E camminando nella luce di Fontana.
Al Museo del Novecento di Milano, la storia di un'amicizia creativa... che ha fatto storia.

(dal Tuttomilano di giovedì 16 ottobre 2013)
Klein Fontana. Milano-Parigi,
1957-1962
Museo del Novecento, via Marconi 1
inaugurazione: martedì 21 ore 18
fino al 15 marzo
orari: lun 14.30-19.30 mar-dom
9.30-19.30 gio-sab 9.30-22.30
info 02.884.44061
lunedì 13 ottobre 2014
Un museo da colossal
L’Hermitage di San Pietroburgo, protagonista di una pellicola da Oscar.
Il mio articolo sulla Repubblica di domani.
Una “one night only” in
140 sale italiane.
Rimarrete incollati alla poltrona per 83 minuti di passione e sentimento.
ecco il link per un trailer in stile Hollywood.
http://www.nexodigital.it/1/id_373/La-Grande-Arte-al-cinema.asp
domenica 12 ottobre 2014
Buone notizie dal mondo dell'arte
la grande mostra su Fontana e Klein.
La coppia d'oro (e blu!) degli anni Cinquanta.
Ma la vera novità sta nella coppia dei curatori.
Finalmente milanesi.
Silvia Bignami e Giorgio Zanchetti.
In risposta alla tendenza esterofila dei soliti musei, spazio ai nostri cervelli!
E i risultati si vedono: la mostra ha un pensiero scientifico alle spalle. Un progetto di ricerca. Una nuova storia da raccontare.
Niente a che vedere con un pacchetto precotto.
In calendario dal 21 ottobre.
sabato 27 settembre 2014
Il monopolio culturale
1984, trent'anni dopo.
Le grandi società dettano legge sulla
cultura. E guai a chi alza la testa.
Lo scriveva Orwell nel
suo visionario (ma neanche tanto...) «1984»,
capolavoro di ossessione e di denuncia di un controllo superiore che
appiattisce le menti. Può sembrare un po' eccessivo paragonare la
situazione culturale del nostro paese a questo gioiello pungente
della letteratura ma, davanti a episodi recenti di censura del libero
giudizio, mi sento un po' come il signor Winston (il protagonista del
libro) impegnato a esprimere il suo malcontento in un diario zeppo di
appunti violenti contro l'ideologia dominante.
Commetterò forse uno
“psicoreato” opponendomi alla “neolingua” imposta dalla
dottrina del “Ingsoc” e al suo motto L'ignoranza è forza, la
guerra è pace, la libertà è schiavitù? Pazienza. Fatto sta
che, in un paese ricco di tesori come il nostro, coi depositi dei
musei che brulicano di opere nascoste e con una storia personale
piena di autori da celebrare, scoprire, esporre, tirare fuori dai
cassetti ed essere orgogliosi di averlo fatto, è deprimente fare la
figura degli spiantati, bisognosi di importare prodotti altrui, di
raccontare la storia degli altri in assenza di una propria.
Stabilito che l'Italian
Pride non è mai stato il nostro forte, nel mondo dell'arte come in
molti altri settori, il biasimo va diritto a quelle amministrazioni
che, per non caricarsi di problemi organizzativi e di gestione, oltre
che di un minimo di creatività e auto-promozione, preferiscono
appaltare la cultura a chi lo fa di mestiere. E che non si preoccupa
certo di produrre contenuti qualitativi, ma solo reddito per le
proprie casse. Parliamo, nel caso dei musei, delle società che
vendono mostre (si definiscono “mostrifici”, quasi a farne un vezzo) e che millantano doti
illuminate da mecenati sventolando il rischio d'impresa, ben
consapevoli dei numeri garantiti a fronte di grandi nomi in
cartellone. È come se la Columbia Pictures si preoccupasse di non
raggiungere il break even lanciando nelle sale il supereroe di turno
o l'ultimo OO7.
I supereroi dell'arte,
come Van Gogh, Chagall, Picasso, Monet, sono successi assicurati. E,
per il pubblico, è bello tornare a vederli anche cento volte; The
Amazing Spider-man io l'ho rivisto per mesi, ma nessuno ha mai
cercato di convincermi che fosse Kubrick! È giusto insomma che il
pubblico scelga con cognizione di causa, che conosca il valore di ciò
che vede e i meccanismi che si agitano alle spalle. Nulla di grave.
Solo trasparenza. Che tuttavia non c'è quando un Comune si dichiara
“produttore” di mostre e poi si scopre che, dall'ideazione
all'allestimento, è stato tutto subappaltato a società
specializzate. Che non c'è neppure quando i giornali ospitano
articoli a piene pagine o i telegiornali dedicano servizi interi a
questi eventi senza fare luccicare in un angolo la scritta onesta
“pubblicità”. E che non c'è, soprattutto, quando le società
storcono il naso leggendo le critiche non prezzolate sui quotidiani e
magari si permettono di minacciare i giornalisti e i critici che le
hanno vergate perché non allineati all'opinione comune (la loro).
Quando nel secondo
dopoguerra, la critica sui giornali la facevano personaggi come
Testori o Leonardo Borgese, bacchettando le mostre che all'epoca
erano davvero frutto di progetti ragionati, costosi e rischiosi, non
mi sembra che nessuno abbia rimbrottato le loro riflessioni negative
giudicandoli «duri
d'orecchi»
o «provinciali».
Era cultura e basta. Le mostre erano fatte per aggiungere tasselli
nuovi alla storia dell'arte. Gli articoli erano scritti per
commentare la qualità dei quei tasselli. E il dibattito era aperto.
E tutti potevano partecipare con un verso.
Oggi
il Grande Fratello delle mostre ci impone pacchetti precotti, ci dice
quali autori vedere e cosa pensare di loro. In questo monopolio
culturale che stranamente riguarda quasi solo il mondo delle mostre
(perché non mi risulta che la Scala sia mai stata affittata alla
Sony perché ci faccia concerti in linea con le sue etichette), si
salvano alcuni baluardi italiani che, nonostante i tagli alla
cultura, preferiscono scommettere su una mostra all'anno (e non
quattro in un mese) investendo nei propri brand. Basti pensare alle
mostre di Palazzo Madama, ai Musei Civici di Venezia o alla grande
antologica del Veronese allestita a Verona promossa e
organizzata dal Comune di Verona, dalla Direzione Musei e Monumenti,
insieme con l’Università degli Studi di Verona e la
Soprintendenza di Verona, Rovigo e Vicenza, in associazione (guarda
un po'...) con la National Gallery di Londra, che da sempre insegna
al mondo come scommettere con intelligenza e reale rischio d'impresa
su prodotti culturali che abbiano un senso, un fine intellettuale e
non solo speculativo. Niente subappalti né monopoli per
un'istituzione che ha rispetto dei suoi visitatori e delle loro menti
libere.
mercoledì 24 settembre 2014
Anteprima
In arrivo sabato, on line
Il monopolio culturale
Quando le mostre sono in mano alle grandi società che dettano legge sui contenuti.
Come se, al cinema, si potessero vedere solo film dello stesso regista e della stessa casa di produzione.
Addio alle etichette indipendenti e ai progetti di qualità.
Ma l'anti-trust è in agguato. Forse.
Il monopolio culturale
Quando le mostre sono in mano alle grandi società che dettano legge sui contenuti.
Come se, al cinema, si potessero vedere solo film dello stesso regista e della stessa casa di produzione.
Addio alle etichette indipendenti e ai progetti di qualità.
Ma l'anti-trust è in agguato. Forse.
La mostra
Segantini. Il gigante della montagna.
Un progetto scientifico che fa fare la pace con Palazzo Reale
e la sua politica esterofila.
Un progetto scientifico che fa fare la pace con Palazzo Reale
e la sua politica esterofila.
Il pittore della
montagna, che sognava di salire in vetta per essere sempre più
vicino al cielo. È un Giovanni Segantini (1858-1899) pieno d'aria e
di vento quello che è arrivato ieri sera a Palazzo Reale per
un'antologica incantevole. Centoventi le opere firmate dal maestro
dell'Ottocento italiano, signore delle Alpi e dei prati rigogliosi,
della neve e del silenzio. Scenari entrati nell'immaginario comune
per gli orizzonti immensi che abbracciano le catene dell'Engadina con
la potenza di un grandangolo in pittura. Proprio zoomando sul
sentimento panico del creato, sulla sintonia del suo cuore silvestre
con le forze della natura, il percorso propone una lettura ragionata
che non si limita a mettere in fila capolavori, ma ne spiega la
genesi, i simboli, l'evoluzione, complice un fondo di disegni
testimoni di ogni fase di studio, di ogni dettaglio costruito in
autonomia prima di ricomporsi, come un mosaico, in una visione
totale. Un lavoro di analisi reso possibile grazie alla curatela
scientifica di chi, Segantini, l'ha esplorato per decenni:
Annie-Paule Quinsac, autrice del catalogo generale, e Diana
Segantini, la pronipote che, come lui, ha le vette nel sangue.
Insieme hanno coordinato l'esposizione prodotta da Skira con la
Fondazione Mazzotta (il catalogo è una favola); la più grande da
quella di Trento dell'87 e la più importante insieme al recente
appuntamento alla Fondazione Beyeler di Basilea. Pochi precedenti per
un nome che meritava davvero un «ritorno
a Milano», come recita il
titolo sui manifesti, pensando alla sua lunga assenza dal sistema
delle mostre in città – l'ultima in Permanente negli anni
Settanta, ma molti quadri oggi esposti si possono apprezzare in
pianta stabile alla Gam di via Palestro – e che allude anche a un
ritorno ideale nella Milano che lo accolse da ragazzo, dopo il suo
arrivo orfano e disperato dal Tirolo, che lo vide crescere sui banchi
di Brera, trasferirsi in Brianza e poi scappare fra i boschi e le
cime lontane. Via, per sempre.
Preceduta da un
calendario di conferenze sul tema della montagna curate da Pietro
Bellasi per il Consolato Svizzero in preparazione della mostra (idea
fortunata, visto che la replicheranno gli organizzatori della mostra
su Van Gogh), Segantini e il suo inno a un'armonia superiore fanno
fare pace con Palazzo Reale e il suo trend esterofilo. Subito, dalla
prima sala, dagli autoritratti magnetici che bucano la carta, si
capisce che il viaggio è iniziatico; le nature morte giovanili
mescolano scuola barocca e senso di precarietà, i primi scorci
campestri, i temporali, la fatica di vivere dei contadini gravano
come macigni fino al momento in cui la fuga gli spalanca i polmoni e
intona la sua ode epica alla valle e al mondo. Se l'istinto, davanti
a soggetti come Riposo all'ombra o Mezzogiorno sulle Alpi,
è quello di osservarli da vicino per contare le schegge di colore
della sua maniera “divisa” per poi indietreggiare e vedere i toni
fondersi, la sorpresa viene dall'incontro con opere ipnotiche come A
messa prima, dove una scalinata grigia inghiotte un parroco
strizzato dalla melanconia, o Ave Maria a trasbordo col
suo senso del sacro alle stelle, arrivata dal Museo Segantini
di St. Moritz insieme ad altri pezzi importanti. Tranne il celebre
Trittico delle Alpi, che non esce mai, ma è evocato dagli
studi che lo generarono, lasciati incompiuti quando Giovanni, rapito
dalla sua montagna incantata, a picco su Pontresina, morì
quarantenne per un attacco di peritonite, troppo lontano dal mondo
perché il mondo potesse salvarlo.
Palazzo Reale, fino al 18
gennaio 2015, lun 14.30-19.30; mar-dom 9.30-19.30; gio e sab
9.30-22.30, 12/6 euro, info 02.92800375.
(da La Repubblica, 18 settembre 2014)
sabato 13 settembre 2014
La mostra (da non perdere)

A un passo dal tempo. Giacometti e l'arcaico
La Sardegna, in ottobre, è un capolavoro!
«Si erge davanti a me tutta l’arte del passato,
d’ogni tempo,
d’ogni civiltà, tutto si fa simultaneo,
quasi lo
spazio avesse preso il posto del tempo.
I ricordi delle opere d’arte
si fondono con ricordi affettivi,
col mio lavoro, con tutta la mia
vita».
Alberto Giacometti, in L. Carluccio, Le copie dal passato, 1967
il link del giorno
martedì 9 settembre 2014
Pillole da Saint Paul de Vence

Ultimo gioiello di Folon. Il signore del cielo.
Quando l'arte è sacra.
Una cappella del XVII secolo legata alla confraternita dei "penitenti bianchi" che, a Saint Paul de Vence, pregarono e predicarono per duecento anni, dalla fine del Cinquecento in avanti. Qui, nel 2005, Folon, l'artista belga famoso per i suoi omini dal cappotto ben allacciato, la bombetta e le mani tese verso un cielo che consola, ha firmato la sua ultima opera prima di scomparire. Un intervento ambientale che si dipana lungo la navata, nell'abside e nelle vetrate, fra pittura, mosaico e smalti lucidi come pietre dure. Un capolavoro avvolgente rievoca il suo mondo trasognato, popolato di figure gentili in omaggio alla missione degli antichi penitenti votati al supporto degli altri. Una luce nivea invade la cappella e illumina i colori solari del maestro e le sculture che dialogano, al centro dell'aula, con le scene dipinte. Una grande mano sull'altare, aperta come un nido, solleva dal terra un personaggio sereno. Un'altra figura amena, al centro di una fonte, abbraccia i colombi che si posano su di lei, come sui rami di un albero accogliente. Buoni sentimenti per un autore pieno di grazia!
sabato 6 settembre 2014
Il dubbio del sabato mattina
L'arte che paga il museo che guadagna.


Il direttore di un museo americano guadagna in media 250mila dollari l'anno. Il direttore di un museo pubblico italiano guadagna invece in media 2.500 euro al mese. I musei americani sono aziende con il bilancio in attivo nel 75% dei casi. I musei italiani carrozzoni in perdita costante nel 98,8% dei casi. Fatte le dovute proporzione, sarà mica il caso di incentivare i risultati con buste paga misurate agli introiti e premi di produzione a obiettivi raggiunti. Hai visto mai che, con uno stipendio adeguato, anche i nostri funzionari abbiano più voglia di inventare e produrre, oltre che sentire gratificati i propri sforzi?
venerdì 5 settembre 2014
Il link del giorno
da "La Repubblica"
Grandi mostre. Grandi incassi.
Riparte la stagione con Chagall, Van Gogh e le arti-star del Novecento.
leggi tutto su
http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/09/05/news/van_gogh_e_chagall_a_milano_un_altra_stagione_di_grandi_mostre_che_punta_agli_incassi-95023542/
Grandi mostre. Grandi incassi.
Riparte la stagione con Chagall, Van Gogh e le arti-star del Novecento.
leggi tutto su
http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/09/05/news/van_gogh_e_chagall_a_milano_un_altra_stagione_di_grandi_mostre_che_punta_agli_incassi-95023542/
giovedì 4 settembre 2014
Anticipo di stagione
Domani, su Repubblica, la mia anteprima sull'autunno dell'arte milanese.
Le star in arrivo a Palazzo Reale. Pacchetti, traslochi e qualcosa di buono.
Come il duetto Fontana-Klein al Novecento.
O le Dame dei fratelli Pollaiolo al Poldi Pezzoli.
Da non perdere, l'intervista di Simone Mosca a Lea Vergine. Al vetriolo.
Le star in arrivo a Palazzo Reale. Pacchetti, traslochi e qualcosa di buono.
Come il duetto Fontana-Klein al Novecento.
O le Dame dei fratelli Pollaiolo al Poldi Pezzoli.
Da non perdere, l'intervista di Simone Mosca a Lea Vergine. Al vetriolo.
mercoledì 3 settembre 2014
Acqua e neve
Previsioni per un autunno (umido) delle mostre a Milano
Stagione che arriva, mostrone che torna. Nel caso dell'autunno milanese, ecco le due apripista che sognano numeri da capogiro e introiti record; tutti, come da copione, diretti nelle casse delle "case di produzione" - Skira e Sole24Ore - cui ormai Palazzo Reale è subaffittato in pianta stabile.
Aspettiamo l'apertura per giudicare le esposizioni, i tagli, le opere, gli studi. Un commento al volo sui rispettivi manifesti che, in quanto a ricerca grafica, non brillano di iniziativa.
Il primo, quello di Chagall, sfoggia la celebre icona della Passeggiata in cui il pittore tiene per mano la moglie Bella mentre volteggia nel cielo. Peccato che l'immagine sia annacquata, offuscata da una nebbia che, nelle intenzioni geniali del creatore, dovrebbe fare crescere la tensione e l'aspettativa sull'evento, stile "coming-soon" cinematografico. Il risultato è dozzinale, complice un lettering da discount. Mi chiedo cosa ne pensino i proprietari dei diritti dell'opera che, in genere, nel caso dei capolavori da manuale, non consentono neanche le più minime variazioni. Figuriamoci l'effetto doccia!
Secondo in gara, il poster di Segantini che annuncia il "Ritorno a Milano" del maestro della montagna. Punto primo: Segantini, a Milano, non è mai tornato. Nel 1886 lascia l'Italia per trasferirsi in Svizzera dove muore a 41 anni per un attacco di peritonite. Punto secondo: l'allusione a un suo ritorno ideale in città va di pari passo con un fotomontaggio posticcio che incolla, sullo sfondo di un dipinto votato al paesaggio innevato, un profilo della Piazza del Duomo in salsa natalizia. Un bel falso storico che vedrà i visitatori vagare per la mostra in cerca dell'originale. Che non c'è, of course.
Nota critica a parte: non aspettatevi il famosissimo Trittico delle Alpi, che resterà a St. Moritz e per vederlo dovrete andare in Engadina. In compenso potrete vedere opere celebri come Le due madri, la Dea dell'amore o L'amore alla fonte della vita che sono conservate alla Galleria d'arte moderna di via Palestro, dove potete tranquillamente vederle già adesso, perché stanno lì da sempre. Non fa un plissé!
lunedì 1 settembre 2014
Pillole da Digione
Storia e gloria dei duchi dal cuor di
leone.
Che nomi impavidi e
meravigliosi avevano i duchi di Borgogna! Filippo l'Ardito. Giovanni
Senza Paura. Carlo il Temerario. Non è un caso che, armati di tanto
coraggio, abbiano fatto la fortuna del proprio Regno. La Borgogna. Terra di
vigne e di castelli dove, sulle colline verdi della “costa d'oro”,
si costruì il destino della Francia moderna. A Digione – che fu la
vera capitale culturale del paese in epoca medievale, culla del
movimento franco-fiammingo, patria di poeti e pittori dalle mani
raffinate ed esatte – la storia e la gloria dei duchi si percepisce
a pelle. Nelle strade punteggiate di stemmi sulle facciate dei
palazzi. Nei locali che portano i nomi dei sovrani. Nelle piazze
disseminate di statue dai gesti e gli sguardi fieri. E, soprattutto,
nel palazzo dei duchi che oggi ospita il Museo di Belle Arti e le
tombe dei regnanti, capolavoro di marmo, stucco, smalto e alabastro
con le effigi tornite sui sepolcri e un
corteo funebre alla base di straordinaria intensità.

lunedì 25 agosto 2014
La (pen)isola del tesoro / 4
La torre (fresca di restauro) del conte avventuriero.
Un globetrotter del Settecento, che amava le donne e la guerra.
Da scoprire a Milano.
Nel percorso varato dal Comune di Milano per la valorizzazione della città romana e delle sue tracce, torna a splendere, dopo alcuni anni di abbandono e poi di restauri mirati, lo splendido complesso delle torri di corso Magenta all'angolo con via Bernardino Luini, giusto alle spalle del Museo archeologico e della chiesa di San Maurizio al monastero maggiore.
Un globetrotter del Settecento, che amava le donne e la guerra.
Da scoprire a Milano.

La coppia di torri (aperte al pubblico dal prossimo autunno) rimanda all'epoca lontana del tardo impero, vestigia di un antico sito di palazzi imperiali, terme e teatri. La prima, poligonale, è collegata a un tratto di mura imponenti, oggi conservate ancora nei sotterranei del museo. Nota come Torre di Ansperto, poiché la tradizione milanese
indicava il vescovo Ansperto da Biassono (869-881) quale suo costruttore, fa da contraltare alla più alta torre dei Gorani, così battezzata in tempi moderni, per via di un omonimo palazzo oggi scomparso. Decorata all'apice con
un elegante loggiato, si tratta dell'unica torre gentilizia d'origine viscontea
sopravvissuta alle bombe dei conflitti.
La curiosità del luogo è legata alla
storia di un suo proprietario, il conte Giuseppe Gorani.
Casanova in versione milanese, nel Settecento passò dalle truppe
lombarde a quelle austriache, fomentò un gruppo di ribelli, scampò
due volte alla forca, progettò un regno insulare sognando di
congiungere Corsica e Sardegna, prima di unirsi agli illuministi di
Voltaire, fiancheggiare Robespierre durante la Rivoluzione Francese e
finire a scrivere le sue memorie in solitudine. Un romanzo d'avventura ambientato sulle rovine di una Milano d'epoca romana, capitale
dell'impero d'occidente, che qui, ben prima del conte casanova, vide sorgere il Circo (come ricorda
il nome di una via attigua) e i Carceres, i cancelli di partenza
delle corse dei cavalli.
martedì 19 agosto 2014
Facce di bronzo

Ragioni e (ri)sentimenti.
Sgarbi vs Settis sulle pagine di Repubblica.
Dopo le critiche già
rivolte alla riforma Franceschini, Salvatore Settis si oppone anche
al viaggio dei bronzi in direzione di Milano, giudicandolo pericoloso
per la loro incolumità. «Sbandierare
le opere superstar non salverà la nostra cultura, sono fragili»
esordisce lo studioso e aggiunge «inutile
scambiare i bronzi per costosi soprammobili».
Della stessa opinione i curatori del Comitato per la
valorizzazione dei Bronzi e del museo Magna Grecia di Reggio Calabria
che ironizzano sulla decisione di Franceschini di consultare un team
di esperti della conservazione prima di mobilitare le opere e
accusano «in caso di
spostamenti, rischiano il danneggiamento irrimediabile e addirittura
la distruzione».
È noto infatti che il bronzo possa autodistruggersi e sbriciolarsi
all'aria alla minima variazione atmosferica, tant'è che il Museo di
Reggio Calabria li conserva in atmosfera protetta... Così
protetta che ben pochi li visitano, a parte il fotografo Gerald
Bruneau che ha avuto, nei giorni scorsi, il privilegio di agghindarli
con veli da sposa, tanga leopardati e boa di struzzo.
Meglio insomma truccarli
da drag queen che eleggerli a testimonial di Expo davanti al mondo. È
logico. Tanto più che, per i turisti in gita a Milano, sarà facile
e piacevole mettere in programma una puntatina a Reggio Calabria nel
caso i bronzi non potessero muoversi e restassero al museo in attesa
che il lungo braccio di Expo li raggiunga. Balle. Ai curatori del
Comitato verrebbe voglia di dire che patrimonio culturale italiano
non è un patrimonio privato delle singole istituzioni da gestire
come la dispensa di casa. A Settis verrebbe, invece, voglia di
chiedere come mai, quando fu lui a chiedere i bronzi per la sua
mostra sulla Magna Grecia a Palazzo Te a Mantova, non si preoccupò
della loro integrità e dei pericoli del trasloco.
Sgarbi lo ha sottolineato
nel suo intervento su Repubblica (vedi link) che – logorrea a parte
– evidenzia l'importanza di promuovere l'Italia attraverso la
promozione mirata dei suoi capolavori. Che non significa, citando
Settis, trasformarli in “opere superstar, fenomeni da baraccone”.
Ma significa piuttosto sfoggiare le nostre potenzialità e anche
“sfruttarle” se questo vuole dire introitare guadagni utili ad
altri restauri, aumentare i flussi di visita ai musei, vivificare le
stanze deserte di pubblico che, finalmente, possa entrare in massa e
magari scattarsi un selfie davanti ai loro muscoli scolpiti e
postarlo sulla rete affinché a molti altri venga voglia di prenotare
un biglietto per Reggio Calabria e scoprire quanta roba bella c'è in
giro.
Difficile da capire?
Meglio mantenere lo status quo, più rassicurante per i conservatori
gelosi e senza slanci, felici che i bronzi vegetino nell'ombra e che
i depositi pullulino di altri reperti “protetti” come in un feudo
personale.
Sono d'accordo con
Sgarbi. Ecco, l'ho detto. E voto per un'immagine del nostro paese che
si identifichi con gli splendidi corpi dei bronzi e non con il solito
piatto di maccheroni, come aveva fatto Tony Blair quando scelse come nostro logo per il Welfare
una pizza, mentre a
primavera, davanti al Colosseo, Barack Obama s'è lasciato scappare
il commento intelligente «è più
grande di alcuni dei nostri stadi di baseball».
Se fossimo capaci di veicolare una immagine diversa di noi stessi e
del nostro patrimonio, forse certe opinioni superficiali e diffuse
sarebbero evitate e godremmo di un rispetto maggiore all'estero. E se
fossimo capaci di quantificare monetariamente il patrimonio
pubblico, visibile e occulto, potremmo anche metterlo a garanzia
degli investimenti stranieri sul nostro paese. Una terra che vale, in
cui credere e da sfoggiare. A rischio di sembrare superstar.
lunedì 18 agosto 2014
Un pensiero per Francesco Meloni
Il suo nome non è contemplato nella
rosa dei critici e degli storici dell'arte più popolari del nostro
paese. Ma sappiamo che la popolarità, da noi, non va (quasi mai) di
pari passo con la qualità del lavoro. E, infatti, il lavoro di
Francesco Meloni, grande e appassionato studioso della grafica
italiana del Novecento, si è sempre svolto dietro le quinte, in
silenzioso riserbo ma con straordinaria professionalità. Che lo ha
portato, non a caso, a compilare negli anni alcuni dei migliori
cataloghi ragionati dei nostri incisori. Basti pensare alla
catalogazione dell'opera grafica di Gino Severini o di Alberto
Martini, al catalogo ragionato delle incisioni di Mino Maccari, oltre
a una serie di pubblicazioni preziose dedicate ai disegni di Mario
Sironi, o ancora, al catalogo ragionato dell'opera grafica di Massimo
Campigli, firmato insieme all'amico studioso Luigi Tavola. Un impegno
riservato e lontano dai clamori del sistema dell'arte, ma condotto
con una conoscenza della materia tale da fare invidia ai critici più
celebrati. Grazie ai libri di Meloni, i conoscitori di stampe, gli
studenti, i collezionisti, gli intenditori, i neofiti avranno sempre
uno strumento utile per misurarsi con l'opera incisa di alcuni
maestri; consultando le sue pagine, scritte con garbo ed esattezza,
si può avere la certezza di trovarvi le risposte a ogni domanda,
come nel migliore dei regesti. Per non dimenticare. I funerali,
domani a Legnano alle 10e30.
domenica 17 agosto 2014
La (pen)isola del tesoro / 3
L'Adorazione dei Magi in valle
Argentina
Il viaggio continua...
Arrampicandosi lungo i
caruggi di Taggia, l'entroterra di Arma, incastonato fra il mare
della Liguria e le gole verdi della valle Argentina (dal nome del
torrente che la attraversa sinuoso), si giunge alle porte del
convento quattrocentesco di San Domenico. In questo luogo mistico,
zeppo di un fascino antico e immerso in un silenzio claustrale, sono
conservati alcuni capolavori della scuola ligure e nizzarda, oltre a
un'Adorazione dei Magi turbolenta e insieme estatica.
Attribuita dal grande storico dell'arte Roberto Longhi al
Parmigianino (1503-1540) – il manierista emiliano celebre per le
sue madonne dai colli lunghi, cinquecento anni prima di Modigliani! –
l'opera dipinta a olio su tavola e databile al 1529, è un vero
miracolo di sospensione, evidente nei gesti lenti e misurati dei
protagonisti in primo piano, mescolata a una dose straordinaria di
inquietudine che il maestro s'impegnò a distillare sullo sfondo
della scena, laddove le nuvole nere come la pece si addensano
all'orizzonte peggio che in questa estate senza sole. La ragione di
tale cupezza sta forse nel fatto che il dipinto fosse un dono per uno
dei frati del convento, attivo come inquisitore. Mah. Fatto sta che
la composizione rivela tutto il guizzo creativo dell'artista capace
di proiettare in avanti e strizzare in uno spazio denso tutto il
dialogo fra la Vergine e i Magi, ritratti con un taglio fotografico a
mezzo busto e animati da un gioco di sguardi fortemente ritmato. Alle
loro spalle, la vita si agita fra un grande arco dalle colonne
classiche che incornicia il bue e l'asino (naturalisticamente sodi e
perfetti) oltre al corteo dei re d'Oriente illuminato da lampi di
luci sul buio pesto della natura selvatica, memore della lezione
“sublime” (in senso british) di Dürer.
mercoledì 13 agosto 2014
La (pen)isola del tesoro / 2
Diario di viaggio. Seconda tappa.
I Giganti di Monte Prama.
Solidi come rocce,
sinistri come il monolite nero di Odissea nello spazio. I
Giganti di Monte Prama sono un capolavoro di ambiguità e mistero che
risale all'epoca nuragica, fra il VIII secolo a.C. e il IX. Rinvenuti
accidentalmente in un campo abbandonato nella primavera del 1974,
nella zona di Cabras, nella Sardegna arsa e rocciosa della costa
occidentale, i monoliti, colossi di pietra alti oltre due metri,
scolpiti nell'arenaria gessosa e morbida come il burro, sono rimasti
nei magazzini del Museo archeologico di Cagliari per trent'anni in
attesa di un degno restauro che riportasse i mille frammenti dispersi
(comprese 15 teste dagli occhi ipnotici, 27 busti monumentali oltre
ad arti e scudi massicci) alle loro forme originarie. Oggi, grazie
agli ultimi fondi stanziati dal Ministero, i Giganti sono in parte
ricomposti e allineati al Museo. Cinque arcieri, quattro guerrieri,
sedici pugilatori, oltre tredici modelli di nuraghe, sembrano la
risposta sarda all'esercito di terracotta dell'imperatore cinese Qin
Shi Huang. Solo che qui, immersa nel sole e negli enigmi del bacino
mediterraneo, la storia dei Kolossoi (come li chiamava l'archeologo
Giovanni Lilliu) risale a un tempo ben più lontano e leggendario, a una storia di
guerrieri arcaici, antecedenti persino ai kouroi della Grecia
classica e alle armate dell'antico Egitto. Potenti!
I Giganti di Monte Prama.

domenica 10 agosto 2014
La (pen)isola del tesoro / 1
Mini-viaggio in Italia alla scoperta di
perle rare.
L'ancilla di Camaiore.


Al Teatro dell'Olivo e al Museo d'arte sacra è in corso una mostra personale di Gioxe De Micheli autore di immagini trasognate e visionarie dove la riflessione esistenziale è venata di sottile ironia. I temi eterni dell'identità, del viaggio, del destino animano racconti poetici, metafore di stati d'animo e ombre profonde della mente. Da meditazione!
domenica 3 agosto 2014
Chiacchiere e distintivi
e
turismo.
Il decreto è legge.
Un solo appunto: speriamo che i soldi
dei musei restino nei musei.
A pochi giorni dalla
diffusione della bozza di riforma per la gestione dei beni culturali,
il Senato approva la proposta di Franceschini. Davanti a un caso di
efficacia politica che mira a un cambiamento necessario, le reazioni
del mondo della cultura fanno discutere. E anche un po' incavolare.
Eccone alcune.
Mentre i tecnici sbuffano
e i reazionari criticano, gli storici insorgono; come Settis o
Paolucci, che ha definito il piano di riforma “una macelleria”
indignato dalla “speculazione” su arte e cultura e dall'avvento
di manager (anche se la riforma non ne parla in modo esplicito) per
una gestione fruttifera delle risorse. Sarà mica preoccupato di non
essere più il solo a fare quadrare i (propri) conti?
Fra le numerose missive
di protesta inviate al Ministro, fanno sorridere quelle firmate dai
docenti universitari (quanti di loro hanno gestito, con esiti
fecondi, un museo o anche solo un albergo?) amareggiati da modifiche
che potrebbero trasformare davvero l'Italia in un paese capace di
mettere a frutto (e a reddito) le sue risorse. Detto fra noi, sono
gli stessi che l'anno scorso si sono lamentati del fatto che il
British Museum avesse stra-guadagnato sulla mostra di Pompei mentre
noi eravamo rimasti a bocca asciutta.
Piovono su internet i post
che, allarmati, annunciano l'estinzione degli etruschi, abrasi dalla
nostra storia solo perché il decreto sancisce l'accorpamento di due
soprintendenze; non certo per dimenticare ma, al contrario, per
snellire alcune procedure, così da permettere che le mura delle
città originariamente etrusche vengano restaurate in fretta...
invece di crollare!
Stendiamo un velo pietoso
sul dibattito che riguarda la possibilità di fotografare nei musei,
che ha visto spesi, on line, fiumi di inchiostro virtuale. Come se
fosse il punto principale di una riforma ben più articolata.
Ridicoli i commenti idealisti sulla necessità di tornare a guardare
dal vero le cose, redatti magari da persone che sono
facebook-dipendenti e condividono tutto, senza pudore. La verità e
che, nei musei stranieri, se vuoi farti uno scatto con un capolavoro
puoi farlo liberamente ed è più coinvolgente che acquistare una
cartolina, oltre che utile al museo per farsi pubblicità mediatica.
Da noi, visto che non si può fare, tutti lo fanno di nascosto, che è
pure peggio.
Fra le reazioni deprimenti, le lettere aperte a Franceschini da parte di ispettori
della Soprintendenza, che vantano ruoli multipli, di direzioni
museali e direzioni di laboratori di ricerca e di laboratori di
restauro, oltre che direzioni generali di poli museali che,
dall'alto dei loro incarichi paralleli, di privilegi a vita e poteri
illimitati lamentano il rischio di “frammentazione” della
dirigenza e della gestione concepite dalla riforma, difendendo le
loro posizioni di comando granitiche e ignorando bellamente che,
nella logica di agilità sposata da Franceschini, un capitolo
importante è dedicato all'assunzione diretta, con contratti a tempo
determinato, di giovani under 40 impiegati per rafforzare servizi di
accoglienza, interventi di tutela, protezione, conservazione,
valorizzazione dei beni culturali. Non darà forse fastidio l'idea di
condividere lo spazio con drappelli di giovani volenterosi e pieni di
idee fresche?
Detto questo, stupisce
(ma neanche tanto) il fatto che le reazioni siano legate ai punti
della riforma che discutono lo status quo della gestione, mentre le
reali e più lungimiranti intuizioni non hanno sortito commenti. Come
la deducibilità al 65% delle donazioni per il restauro di beni
culturali, biblioteche e archivi, per gli investimenti
dei teatri e delle fondazioni lirico sinfoniche, fino a
arrivare alle agevolazioni fiscali per favorire la competitività del
settore turistico attraverso la sua digitalizzazione e la riqualificazione degli alberghi (i francesi hanno metà dei nostri alberghi e vendono il triplo delle camere!). Inutile dire che
si tratta del punto più importante, visto che è quello su cui
si regge e prolifica tutto il sistema anglosassone della
cultura, a fronte di contributi minimi pubblici. Un punto che, non a caso, avevo previsto nel mio post del 19 gennaio…
Ciò su cui semmai
bisognerebbe discutere è l'utilizzo effettivo dei finanziamenti: la
riforma non specifica come verranno introitati dalle singole
istituzioni e se esse avranno libertà di gestione dei propri fondi,
senza vederli insabbiati (come accaduto fino a oggi) nel calderone
delle entrate comuni. Si spera, insomma, che i soldi dei musei (di
teatri and co...) restino ai musei. Questo favorirebbe anche la
volontà di riappropriarsi dei servizi dati in gestione, come i
ristoranti e i bookshop, utilissimi alle rendite dell'istituto e
attualmente utili solo alle rendite dei concessionari. Meglio ancora
sarebbe capire se tutto questo riguardi solo i musei statali, oppure
anche tutti gli altri, allargando ai comuni e alle provincie.
Dovendo davvero discutere
della riforma, cominciamo da qui. Perché le fotografie, le poltrone
per due, gli etruschi e i manager sono solo diversivi per distrarre,
come sempre, l'attenzione da problemi reali e per difendere gli
interessi di quei pochi aggrappati alle loro chiacchiere e ai loro distintivi.
Vedi anche:
Il mio post del 19 gennaio.
I post su facebook degli amici e
colleghi Diego Galizzi e Alessandro Furiesi, sempre puntuali, lucidi
e (giustamente) acidi...
L'articolo di Giuliano Volpe che fa il
punto sul disappunto (ingiustificato)
venerdì 1 agosto 2014
Il dubbio del venerdì
Non è che, tra un po', pioveranno polpette?
Un nuovo effetto speciale per Expo, sponsorizzato da McDonalds?
il link:
http://milano.corriere.it/foto-gallery/cronaca/14_luglio_30/pannocchie-castello-b9b65d02-17c9-11e4-a7a2-42657e4dcc3b.shtml
Un nuovo effetto speciale per Expo, sponsorizzato da McDonalds?
Dopo il "popolo del cibo" col sedere a forma di mortadella, la festa della salsiccia al Castello Sforzesco, gli auditori a forma di michetta, l'expo center a forma di gianduiotto, gli orti rinsecchiti in piazza Duomo, adesso arriva l'installazione "QuantoMAIS" con decine di piante e pannocchie posizionate fra i due padiglioni di Expogate. Il dubbio sorge spontaneo: ma l'idea non era quella di nutrire il pianeta? Invece di friggere panzerotti e trapiantare boschi posticci, non sarebbe meglio restituire alla terra e non continuare a prelevare? QuantoMAI!
il link:
http://milano.corriere.it/foto-gallery/cronaca/14_luglio_30/pannocchie-castello-b9b65d02-17c9-11e4-a7a2-42657e4dcc3b.shtml
venerdì 25 luglio 2014
Come staremmo bene noi in Italia se fossimo a Basilea!
A Villa Panza come alla Beyeler.
Arte, natura e professionalità.
Il giardino all'italiana, le collezioni storiche del conte Panza, appassionato di minimalismo americano, il ristorante glamour, le mostre d'arte contemporanea nelle antiche scuderie e quelle di land art nel parco, fra alberi secolari, fontane e boschi romantici.
Villa Panza a Varese, più
che un museo, è un'esperienza. Un luogo dove trascorrere una
giornata fra natura, arte e (perché no) divertimento. Quello si
prova navigando fra i colori fluo di Dan Flavin e le sue
installazioni di luce al piano nobile. Oppure dentro, nel buio pesto
della famosa stanza di Maria Nordman, fresca di restauro, un cubo di
oscurità profonda che mette alla prova la capacità di adattamento
dei sensi e delle pupille nella notte più nera. O, ancora, davanti
alle illusioni, ai pezzi di cielo catturati da James Turrell nelle
sue stanze di sole o da Robert Irwin nelle sue geometrie invisibili,
pareti cieche, ingannevoli, labirintiche. Turrell e Irwin
protagonisti in coppia della splendida mostra Aisthesis.
All'origine delle sensazioni, in agenda fino a novembre.
All'altezza delle maggiori istituzioni museali del mondo. Beyeler in
primis. Un esempio di professionalità, quello del Fai a Varese, che se fosse preso a modello nel resto del paese, avremmo meno guai con la valorizzazione dei beni culturali. E ci sembrerebbe di stare in un altro paese.
Arte, natura e professionalità.
Il giardino all'italiana, le collezioni storiche del conte Panza, appassionato di minimalismo americano, il ristorante glamour, le mostre d'arte contemporanea nelle antiche scuderie e quelle di land art nel parco, fra alberi secolari, fontane e boschi romantici.

Il bellissimo articolo di Cristiana Campanini sulla mostra di Murakami a Palazzo Reale.
Da leggere!
Da leggere!
martedì 22 luglio 2014
Giù al nord
Daverio il "salvatore" e le
mostre Del Corno.
Milano fa da spalla a
Napoli
nel lancio di un pittore partenopeo.
Il manifesto di Mimmo
Rotella sventola solitario appeso al balcone di Palazzo Reale. Le
mostre della primavera – quella di Klimt acchiappa-turisti e la
più sofisticata su Bernardino Luini – sono finite
contemporaneamente a metà luglio. Il languore delle casse destinate
alla cultura ha reso languide anche le sale destinate alla mostre,
giusto in tempo per l'arrivo dei viaggiatori, ansiosi di visitare
Milano come una città d'arte, che «ha
fatto delle mostre – a detta dell'assessore Filippo Del Corno –
il suo migliore biglietto da visita culturale e turistico».
Peccato che di mostre, in
odore di ferie, ce ne siano poche e che il Comune, accortosi in
corner del vuoto pneumatico, abbia deciso di porvi rimedio sfoderando
senza preavviso (ma a noi l'effetto sorpresa piace tanto) un paio di
appuntamenti precotti. Come la retrospettiva dedicata a Gennaro Della Monica (1836-1917), paesaggista di
onesto livello, che oltre ad essere già
confezionata, con tanto di catalogo in stampa, in vista dell'exploit
in autunno al Castel dell'Ovo di Napoli, vanta anche la curatela
stellata di Philippe Daverio e di Claudio Strinati, felicissimi di
aggiungere, al tour di promozione dell'ignoto in fase di lancio, una
tappa illustre come Milano.
E così, come accade
proprio nelle tournée dei concerti, dove i supporter scaldano il
pubblico prima della star, Milano ha accettato, presa per la gola, di
fare la parte della spalla a Napoli, senza neppure porsi il dubbio
sul fatto che il povero Gennaro non sia Springsteen e che
difficilmente i suoi boschetti da salotto scalderanno un pubblico
viziato da Klimt e dalle altre mostre-panettone cui Palazzo Reale lo
ha abituato. E se l'idea di un'antologica che sveli per la prima
volta il valore autentico di un maestro dimenticato potrebbe
rispecchiare una politica culturale votata alla crescita comune, il
retroscena dell'episodio lascia intendere che non ci sia alcuna
lungimiranza, ma solo opportunismo alla base di un'operazione
salva-faccia.
La faccia di Palazzo
Reale, che può appende un altro manifesto per fare compagnia a
Rotella e che, vantando la gratuità degli ingressi nella mostra di
Della Monica, ostenta anche la sua grande generosità. La faccia di
Napoli, che accoglierà in novembre l'artista già sdoganato da
Milano. La faccia di Daverio che, arrivato a salvare le sorti del
Comune con la disinvoltura loquace che lo distingue, s'è guardato
bene dallo strillare al “genio” e al “capolavoro”,
retrocedendo verso un più cauto “pittore domestico, testimone di
un'epoca povera ma lirica”. Furbissimo, come sempre. Meno furbi,
Del Corno e Piraina, entusiasti di aver patrocinato la scoperta di un
pittore abruzzese dell'Ottocento (che, fra l'altro, non ha alcun legame
con la storia di Milano), quando i depositi della Gam, la Galleria
d'arte moderna di via Palestro, pullulano di artisti nostrani in attesa
di valorizzazione.
Non so voi, ma a me, se
Napoli mi avesse chiesto di fargli da apripista, per spirito di
collaborazione gli avrei risposto di sì, in cambio di un accordo per
il futuro e del lancio congiunto di un bel nome milanese. Un Giovanni
Carnovali (di cui c'è pure il catalogo in corso, finanziato da un
privato of course), un
Emilio Longoni, un Luigi Conconi, oppure un Vittore Grubicy de
Dragon, che ha un nome esotico, ma è
tutto milanese! E che, rispetto al caro Gennaro, conquista con il
grande fiato di una pittura piena d'aria e di vento, e non sortisce la
noia mortale di quadretti formato sala d'aspetto del notaio o del
commercialista.
lunedì 21 luglio 2014
Una poltrona per due
Sono d'accordo, a metà, col mister (alias Dario Franceschini).
Che, con la nuova bozza di riforma, forse ha capito come far rendere la cultura.

(da La Repubblica, venerdì 18 luglio 2014)
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