
Leggo su facebook un
commento sdegnato sul fatto che il
British Museum di Londra abbia
realizzato il suo record storico di vendita di biglietti grazie
all'esposizione di reperti archeologici in arrivo da
Pompei, prestati
dalla Sovrintendenza. Sdegnato perché pare che, sull'incasso, il
nostro paese non abbia guadagnato nulla o, forse, non abbastanza,
considerata la mostra straordinariamente riuscita, con tanto di
overbooking.
Per prima cosa, non è
dato sapere se la Soprintendenza o il Ministero abbiano richiesto un
fee adeguato, come di norma accade; ma, considerata la nostra abilità
contrattuale in fatto di beni culturali (è una cosa brutta speculare
sulla cultura!), immagino che il fee non ci fosse o fosse minimo. Per seconda cosa, non capisco per quale motivo indignarsi se
un museo, che è fra i più illustri, attivi, organizzati,
professionali del mondo, riesca, non solo a raggiungere il break-even
con una mostra (per noi è pura utopia), ma ci guadagni pure,
arrivando saggiamente a destinare gli utili ai restauri dei pezzi in
collezione, all'incremento dei servizi, alla organizzazione di eventi
futuri che, a loro volta, e nella stessa logica, nutriranno il museo,
evitando magari che cada a pezzi, come è successo a noi con la Domus
dei gladiatori e, recentemente, anche l'antico lavatoio, proprio a
Pompei.
In sostanza, ci
arrabbiamo perché gli altri sono migliori di noi nel promuovere e
sfruttare le nostre eccellenze. E vorremmo che, nel momento in cui
ciò avviene, condividessero generosamente gli utili.
Scusate, ma questo è opportunismo bieco, specchio di un'atavica
inettitudine. Bravi loro. Scemi noi. Che concediamo pezzi in tutto il
mondo, che vengono ammirati ovunque e quando si presenta la vaga
possibilità di veicolare i turisti nel nostro raggio d'azione, le
mostre fanno schifo, le statue si sbriciolano, il bookshop langue di
pochi gadget polverosi, la cassa è chiusa per sciopero, o peggio,
scaccia le coppie gay con prole perché non costituiscono una nucleo
familiare e non hanno diritto allo sconto sull'ingresso... come è
successo pochi giorni fa al museo etrusco di Volterra, che ha visto
una coppia di Philadelphia uscirsene furente. Questo deve destare
sdegno, non il fatto d'essere sempre noi il fanalino di coda,
superati da tutti, persino nelle attività che dovremmo sapere fare
meglio e con meno sforzo.
Perché stupirsi che
certe collezioni private s'involino per l'estero, al fine di una
adeguata valorizzazione. Per esempio, la collezione di stampe di
Giorgio Upiglio, il più grande stampatore italiano (o del mondo)
scomparso a metà ottobre, che ha donato tutto il suo archivio
all'Archivio del Moderno di Mendrisio, in Svizzera. Come si poteva
pensare che sarebbe finito in Bertarelli, la raccolta di stampe
milanesi che, con milioni di fogli nei cassetti, promuove una mostra
ogni tre anni e ha appena sbarrato la sala di consultazione per
mancanza di personale? La collezione di Mario De Michele, mitico
storico dell'arte italiano, la cui biblioteca conta 25mila titoli
richiesti in consultazione da mezza Europa, risulta non consultabile,
perché è stata sloggiata dalla sede deputata di Trezzo d'Adda
grazie alla lungimiranza di giunta leghista che ha definito De
Micheli “un illustre sconosciuto”, relegando i volumi in decine
di scatoloni, oggi nei depositi di un'altra biblioteca
dell'hinterland, che però non ha spazio per esporli.
Ho chiesto, una volta,
alla biblioteca di Harvad, a Boston, di fornirmi alcune fotocopie di
un volume da loro custodito: mi è arrivato il libro intero. Chissà
cosa risponderà Trezzo o il Comune di turno al lettore tedesco,
inglese o francese, che invierà una richiesta analoga per uno dei
rarissimi volumi del grande Mario. Io, tutto sommato, valuterei
l'ipotesi di spedire pachi e pacconi alla British Library. Probabilmente
speculerebbero anche su questo, ma i libri almeno sarebbero sugli scaffali. Per lo sdegno, o l'invidia tardiva, dei tonti.