Addio
storia dell’arte
Il ministro Carrozza
riesce a fare peggio delle Gelmini
Errare è umano,
perseverare è diabolico. Pensavamo che Mariastella Gelmini con la
sua riforma tecnicistica per una scuola moderna, agile, dinamica, in
una parola superficiale, avesse toccato il massimo del raccapriccio
varando la cancellazione la storia dell'arte da tutte le classi delle
scuole medie superiori (ginnasi compresi); invece Maria Chiara
Carrozza, che l'ha sostituita brillantemente dietro la scrivania
del Ministero dell'Istruzione (ma perché non cancelliamo anche
quello?), è riuscita miracolosamente a fare peggio. E cioè a prende
atto del problema e a non risolverlo. Confermando, vale a dire,
l'abolizione della disciplina su cui si basa, per eccellenza, la
nostra storia, il nostro passato, le nostre radici culturali e,
soprattutto, il nostro patrimonio nazionale più ricco.
Mentre l’indignazione
monta, le polemiche fioccano e gli appelli aumentano, viene da
chiedersi se tale drammatica disattenzione che aleggia ormai in modo
costante intorno alle risorse migliori e alle potenzialità del
nostro paese non sia frutto di sola ignoranza, ma faccia parte in
realtà di un progetto preciso per l'affossamento dell'Italia. Anche
perché, conti alla mano, persino la mente meno arguta e inesperta,
capirebbe come sarebbe naturale far rendere i nostri beni dal punto
di vista economico e non solo per una degna crescita civile. Con una
battuta, stranamente felice, Vittorio Sgarbi ha affermato
qualche mese fa in una intervista alla radio che «basterebbe
un Giorgione per comprarci Colonia».
Scherzi a parte, invece di alienare i capolavori dell'arte, sarebbe
sufficiente considerarli al pari di un qualsiasi patrimonio messo
a garanzia. Un patrimonio da valorizzare e su cui fare
affidamento.
Per fare questo, il
sistema dei musei e l'accoglienza turistica legata alle città
d'arte, dovrebbero ispirarsi alla logica anglosassone che –
a fronte di un patrimonio pari al 2% del nostro – è in grado di
farlo rendere in modo straordinario. Il 75% dei musei americani
risulta in attivo, mentre in nostri non arrivano neppure al pareggio
di bilancio. Gli oltre 21milioni di turisti stranieri che
approdano ogni anno in Italia per nutrirsi di arte (a loro andrebbero
sommati altri 17 milioni di italiani in circolo) sarebbero una
ragione sufficiente per avviare una politica di marketing adeguata.
Rendendo mostre e musei più friendly, dotati di confort per
l'accoglienza, sale relax, vari punti di ristorazione a misura di
portafoglio; come il Fine Arts di Boston che ne offre tre
differenti a seconda delle esigenze della clientela, dal sandwich
alla cucina raffinata. Al Museo del Novecento, a Milano, esistente un
unico ristorante, affacciato sul sagrato del Duomo dove, per un
aperitivo, è necessario siglare un leasing. Meglio la vicina
Triennale, che sfoggia un desing caffè ospitale e non troppo
dispendioso, oltre a una comoda biblioteca con accesso a internet.
La convinzione che
rendere gli ingressi gratuiti – così come è stato
sperimentato in parte a Milano negli ultimi anni – avvicini il
pubblico al museo, non potrebbe essere più deleteria. Intanto
perché, come dice il detto, ciò che non costa non vale, e poi
perché il museo deve avvicinare il pubblico, non svendendosi, ma
aprendosi all'esterno, con un atteggiamento invitante, offrendo
servizi per le famiglie che si sentano accolte come in una specie di
parco dei divertimenti, dove si possono frequentare corsi insieme ai
propri bambini, oppure semplicemente prendersi un caffè in un luogo
cool, o acquistare gadget nei bookshop. Per l'ultima mostra di
David Hockney alla Royal Accademy di Londra, a parte il
biglietto di ingresso, parente a 20 sterline, che tutti gli inglesi
acquistavano col sorriso stampato sulla faccia per la felicità di
celebrare un talento nazionale (non so quanti abbiano sorriso per
l'ultima grande mostra di Paladino...), il bookshop ha registrato un
incasso giornaliero di 100mila sterline (25 erano le mie che
ho comprato borse per tutti i parenti).
Nel solco della nostra
logica nazionale, che distrugge e non crea, i bookshop dei musei
italiani devo invece rispettare la regola ferrea di non esporre
gadget inadeguati al livello culturale delle mostre. Niente gingilli,
oggetti ameni, curiosità aliene al tema dell'esposizione. Al Louvre
e al Met di New York, insomma, dovrebbero chiudere mezzo negozio.
Ciò spiega l'aria depressa dei bookshop nostrani, l'atmosfera
infermieristica, dove brillano libri e libroni, ma non c'è l'ombra
di una mezza curiosità. L'arte, con questa mentalità retrograda
(Gelmini in testa) finisce necessariamente per annoiare, stantia e
muffosa come i musei che non la sanno comunicare. Di conseguenza,
inutile continuare a insegnarla nelle scuole, se tanto poi al museo
non ci andiamo o ci andiamo solo se ce lo regalano e poi spendiamo 20
euro nel pub di fronte. La verità è che, agli strateghi della
politica culturale italiana, non interessa farlo rendere, nel senso
economico del termine, considerarlo un patrimonio su cui investire,
proprio come l'America, che riesce a investire anche in musei senza
patrimonio, costruiti sul niente, ma costruiti benissimo! Per
questi abili strateghi, l'arte e il turismo che da essa deriva (40
milioni di fruitori l'anno dovrebbero far riflettere) sembrano non
fare parte delle nostre potenzialità, oltre che del nostro dna,
delle nostre radici, del nostro valore da propagandare come un bene
di lusso.
L'arte è un peso da
gestire (perché, comunque, un patrimonio richiede attenzione).
Meglio allora perseverare come la Carrozza e contribuire a fare
crescere una nuova generazione senza passato. Che continuerà –
come già purtroppo accade – a fare la fila davanti al Louvre (i
primi visitatori in termini numerici sono sempre gli italiani),
ignorando che Brera, a Milano, ha altrettanti e splendidi
capolavori. Non so se, per migliorare tutto questo, bisognerà
cambiare la testa ai politici o alla gente comune. Io, per non
sbagliare, la cambierei a entrambi.
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